“Da quando ho intrapreso questa avventura, come tutti gli studenti di medicina mi sono trovata ad affrontare l’oncologia. Il primo giorno di lezione frontale ero terrorizzata. Perché affrontare il nemico apertamente, senza sapere se ci sono delle armi per sconfiggerlo fa paura. E il mio primo sorriso l’ha strappato il mio compagno di banco che vedendomi tesa mi ha detto: “vedi la sola parola tumori fa terrorismo” …. “perché?” gli chiesi… “bhe se la analizzi: TU, MORI!”.. ho riflettuto un attimo e poi sono scoppiata a ridere ed in effetti poteva anche avere ragione anzi… l’aveva.
Solo proferire quella parola scatena paura e terrore di morire, è insita nella parola stessa la morte. Anzi la certezza della morte. Eppure, nonostante volessi evitare di essere presente a lezione nonostante mi chiedessi, chi fosse quel pazzo medico che ad un certo punto decida di fare l’oncologo, grazie agli interventi della professoressa di ortopedia, mi sono resa conto che in questi anni, molto si è fatto per migliorare il tasso di sopravvivenza e la qualità di vita per le persone che affrontano questo percorso, anche in neoplasie che fino a qualche anno fa erano giudicate incurabili. Così, dovendo comunque affrontare il tema ho deciso di farlo nel miglior modo possibile; conoscendolo bene ed in ogni suo aspetto.
E man mano ho conosciuto l’oncologia, man mano ho capito che c’è un mondo dietro a questa disciplina, e che questo mondo, non è cosi’ limitato come siamo portati a credere. Ma cosa crediamo o sappiamo dei tumori? Sappiamo che se un giorno dovesse capitare che lo diagnosticano, ciò che si deve affrontare è un percorso di terapie farmacologiche tossiche e debilitanti quali la chemioterapia e la radioterapia neo adiuvante ed adiuvante a volte unite alla chirurgia spesso deturpativa. O alle terapie anti-ormonali od immunoterapia.
E di fatto ogni nosocomio decide il suo protocollo… e se ad esempio un povero signore colpito da condrosarcoma, finisce nell’ospedale sbagliato, pur sapendo che questo tumore non è responsivo alle terapie adiuvanti (chemioterapiche e radioterapiche) non gli propongono nient’altro, perchè non hanno nient’altro a protocollo… quando extra protocollo, ci sono altre terapie inibitorie dell’ angiogenesi che potrebbero sostenerlo, magari utilizzate in altri nosocomi. Ma pochi sanno che in realtà ci sono scelte diverse e possibilità diverse per affrontare queste patologie.
Un po’ perché parlarne fa paura, e quindi ci si informa se siamo costretti a doverlo fare, un po’ perché quando si è malati, si crede che ogni medico o professionista sanitario agisca per il nostro meglio… ma non sempre è così. Come ogni altra scelta che facciamo nel corso della nostra vita, anche curarsi dovrebbe essere vista come una possibilità che va valutata cercando risposte diverse da persone diverse.. invece soprattutto nel caso di patologie che fanno paura, si tende ad andare in ospedale affidandosi ciecamente, senza chiedere se ci siano altri metodi di cura o altre forme terapeutiche per affrontare queste patologie. E lì si diventa un numero. Si perde il nome, la caratteristica persino biologica di chi siamo, perchè diventiamo il signor Kcolon T1-2-3 etc, o Kprostata T1-2-3 etc. Tutti trattati nella stessa maniera, identico protocollo che cambia un pò a seconda se si è refrattari o non responsivi. Stessa dieta, stessi integratori, stesse terapie.. eppure diverse risposte! E nessuno si chiede come mai?
Ognuno di noi ha un timbro genetico e biologico diverso. Ognuno di noi ha cause e elementi diversi, modi di rispondere diversi, attivazioni fisiologiche e capacità emotive nell’affrontare la patologia diverse. Ed è questa diversità che dovrebbe spingere i medici nel cercare la cura ad personam che funzioni in quella persona, anche se con mezzi diversi.
I tumori, che da oggi in poi vorrei chiamare tuvivi, sono una malattia che come altre malattie necessitano di essere valutate globalmente e non solo loco-regionalmente dove si manifestano; che necessitano di terapie di supporto e sostegno che agiscano su tutto l’ organismo ed a favore di tutto l’organismo che in fondo, se fosse potenziato saprebbe ben sopravvivere ad ogni attacco xenobiotico teratogeno esogeno od endogeno. E non solo di farmaci bersaglio o azioni chirurgiche per arginare la patologia cercando di inseguirla; ma di elementi che possano rafforzare, salvaguardare e disintossicare l’organismo da quegli stessi farmaci che indistintamente colpiscono anche la parte buona che non può permettersi di essere indebolita; ma oggi, mi chiedo è così? Oggi cosa significa essere presi in cura? Significa subire una cura o esserne parte attiva?
Quando una persona è coinvolta in un percorso di cura non dovrebbe essere una parte passiva, ma dovrebbe percorrerlo attivamente, cosciente di cosa deve fare, di quali sono rischi, benefici e risultati potendo anche scegliere sul cosa fare e il come. Invece all’oggi soprattutto per le cure oncologiche, o mangi questa minestra o salti la finestra.
Il processo di cura non dev’essere una strada decisa a tavolino dal dottor protocollo, con terapie che non riconoscono la dignità, i bisogni o le peculiarità della persona; il processo di cura deve essere un processo sartoriale, vestito non sulla patologia, ma sulla persona. E dovrebbe essere deciso dal medico o meglio, da un equipe medica che non dev’essere influenzata dalle scelte politiche dei singoli nosocomi o dalle direttive regionali o nazionali; ma dovrebbe garantire la miglior cura possibile per quella persona, di cui quella specifica persona dev’essere responsiva, al di là degli strumenti che si utilizzano, dei protocolli, delle linee guida.
La patologia, qualunque patologia non è un processo convenzionale nè lineare e così non lo dev’essere nemmeno il processo di cura. Ma è necessario che tutto il sistema sanitario lavori affinchè possa condividere strumenti e procedimenti, che possano essere utilizzati da ogni medico secondo le esigenze del singolo paziente.
RIABILITAZIONE ONCOLOGIA
Infine, una parola sulla riabilitazione oncologica. Attivata mediante l’ASL non per tutti e solo in caso di complicanze post chirurgiche, dev’essere un diritto sin dalla diagnosi. In quanto procedimento fondamentale del processo di cura stesso per migliorare lo stato di salute nell’affrontare un operazione, o un percorso farmacologico impegnativo, per poter aumentare le abilità residue, recuperare il guadagno o per evitare di perderle; un corretto percorso riabilitativo attuato in tempi preventivi, potrebbe evitare addirittura le complicanze post chirurgiche che spesso sono più gravi e debilitanti dell’operazione stessa, della stessa patologia.
Bisognerebbe agire con un progetto nutritivo vestito sulle esigenze del paziente per evitare sarcopenia, una condizione che è quasi implicita nel percorso della malattia, colpendo anche gli obesi che nonostante la mole di massa grassa diventano sarcopenici. E non semplicemente fornire una nutrizione di supporto solo per evitare che perdano peso.
Bisognerebbe utilizzare terapie non invasive per gestire l’emesi (nausea-vomito) delle chemioterapie, o le polineuropatie che per quanto siano diventate più leggere, condizionano la vita del paziente; utilizzare integratori specifici e riabilitazione oncologica per limitare la fatigue.
Perchè spesso si muore di comorbidità iatrogene o da complicazioni, non tanto dalla naturale evoluzione di una patologia autofagocitaria. E se si vive, i farmaci antitumorali determinano conseguenze patologiche importanti sulla persona, soprattutto sui bambini, che pur sconfiggendo la leucemia si trovano ad esempio diabetici, cardiopatici, osteoporotici in giovane età.
Quindi la medicina riabilitativa è uno strumento indispensabile da utilizzare sino agli esordi della patologia, insieme a tutte quelle terapie che debbono concorrere a migliorare la vita di ogni persona malata, senza doversi sentire l’una in concorrenza o in lotta con l’altra, perchè l’unica lotta che dovremmo affrontare è quella per ridare alla persona dignità e cura, malata o sana che sia, altrimenti l’alternativa è quella di continuare ad avere paura di una parola, incapaci di poterla cambiare”.
Dr.ssa Salvi